Alla scoperta di un giovane filmmaker salernitano. Domenico Natella,
vanta una carriera complessa e apprezzata, studi presso la New
York Film Academy di Los Angeles e La Escuela de Arte Escenica
de Granada, numerosi riconoscimenti per i suoi lavori “Hoy
no estoy pa’ nadie” e “ Regalos caidos del cielo”,
fino all’ultimo dei premi ricevuti al Festival del Cinema
Libero di Roma per l’innovazione apportata al linguaggio
cinematografico con la sua opera, il cortometraggio “L’interruzione”.
Prodotto dall’associazione Renèe Vivien in collaborazione
con l’Università degli Studi di Salerno, il corto
è un tentativo di rompere-interrompere il pregiudizio su
un realtà spesso “tabuizzata”, quella dell’omosessualità
femminile, attraverso il racconto di quattro giovani amiche che
si riuniscono per creare a loro volta un corto sull’argomento
e finiscono con l’essere le protagoniste del corto di Natella.
Con lui ho
avuto occasione di chiacchierare sia sull’ultimo lavoro
che sulla sua esperienza artistica.
Quante e quali
difficoltà incontra un giovane regista che desidera proporre
il suo lavoro? La nostra regione, da questo punto di vista, offre
qualche possibilità?
Diciamo che la difficoltà che si riscontra con i lavori
indipendenti è nel trovare produttori e distributori, anche
se tutto diventa più facile se il lavoro piace… Nel
nostro paese non c’è neanche l’usanza di proiettare
corti nelle sale magari prima del film in cartellone. La regione
dal canto suo offre un buon numero di festival, che almeno verso
i miei lavori hanno mostrato interesse, e poi qualcosa si sta
muovendo nella Film Commission.
Hai avuto
esperienze all’estero, New York, Spagna, che differenza
c’è nel modo di concepire il cinema e il “fare
cinema” rispetto al nostro paese?
È totalmente diverso. In America c’è disciplina,
capisci che l’industria cinematografica è un meccanismo
a orologeria, ed io mi ritrovo con questo metodo. In Italia prevale
un concetto poetico del fare cinema, concetto che convive con
la realtà disastrata del nostro cinema. Il lato positivo
è che il regista gode di maggior libertà artistica.
Altra pecca italiana è che il cinema è molto autoreferenziale,
parla di tematiche italiane che destano poco interesse altrove.
La situazione è diversa in Spagna, dove i giovani sono
aiutati da leggi regionali, c’è un maggior rispetto
per l’arte ed una sorta di nazionalismo cinematografico,
tant’è che un’apposita legge prevede la proiezione
in egual misura di prodotti nazionali ed esteri.
Nei tuoi lavori
affronti sempre tematiche forti con tono provocatorio. Quanto
credi nella potenza di un messaggio lanciato attraverso il cinema,
il teatro e le altre forme di comunicazione da te usate?
Molto. Con il mio primo corto“Hoy no estoy pa’ nadie”
(che parla dell’Aids), gli spettatori hanno provato emozione,
hanno “sentito” il messaggio. Anche ne “L’interruzione”
c’è stata immedesimazione. In fin dei conti ciò
che mi spinge a continuare è proprio questo crederci, insieme
ad una forte motivazione artistica.
Citi spesso Almodovar come punto di riferimento, quali sono i
tuoi “maestri”?
Abel Ferrara, con il quale ho seguito un corso a Bologna, Andy
Warhol e Paul Morrison, il quale ha anche apprezzato un mio lavoro,
e poi Fellini, Hitchcock, Kubrick…
Dalla soggetto
del tuo secondo corto, “Regalos caidos del cielo”,
hai ricavato un adattamento teatrale. Come sono stati accolti
dal vivo i tuoi temi provocatori? Cosa c’è di diverso
tra la tua esperienza teatrale e quella cinematografica?
A Salerno è piaciuto molto, in un’altra città
forse questo successo avrebbe avuto un seguito, ma qui non c’è
un vero sistema dell’arte. Mi è piaciuta molto l’esperienza
del teatro, che è più performativo rispetto al cinema.
Anche se simile nella tematica il lavoro ha preso due strade diverse
per il corto e per il teatro, qui contano molto anche gli attori
e il lavoro del regista su di loro è fondamentale. Un’esperienza
che ripeterò. Una sfida artistica.
La critica
ti è favorevole sia all’estero che in Italia, ed
hai già collezionato numerosi premi, tra cui l’ultimo
per l’innovazione apportata nel linguaggio cinematografico
con la tua opera “L’interruzione”. Come descriveresti
l’innovazione da te apportata?
Per ogni lavoro cerco il linguaggio più adatto, un po’
con la logica e molto con l’istinto. Cerco di motivare ogni
inquadratura, sublime arte, che può influenzare lo spettatore
a livello inconscio più delle parole. Ho cercato una sorta
di cinema “ipnotico” seguendo una lentezza dell’inquadratura
e ricercando una sorta di linguaggio cognitivo.
Ne L’interruzione
affronti un tema considerato da molti, soprattutto nel nostro
paese, come un tabù. Qual è il messaggio della pellicola?
Interrompere il pregiudizio sulla differenza di genere usando
toni ironici e non volgari. L’obiettivo è avvicinare
il più possibile a queste realtà anche quando non
ci toccano direttamente. Raccontando la storia in modo più
estremo la realtà sarebbe stata travisata, in realtà
io voglio normalizzarla.
Per la realizzazione
ti è servita la tua esperienza all’estero, dove questi
temi sono affrontati più apertamente?
Viaggiando le barriere non esistono e anche quelle mentali cadono.
Magari una cosa vista con occhio critico in Italia è accettata
e rispettata in un altro paese, e mi riferisco soprattutto alla
Spagna. In Italia anche per via della chiesa siamo un po’
indietro, sembra di tornare quasi alla censura ideologica.
Si tratta
anche di un film che parla di cinema. Da dove è nata l’idea
di realizzare un racconto meta-cinematografico e perché
la decisione di realizzarlo in un unico spazio chiuso?
Io sono un fan dei metalinguaggi e di Abel Ferrara, della follia
di fare un film confondendo vita reale e finzione. Nel corto da
un senso e un pretesto al loro confronto, elaborando il soggetto
si accorgono si essere esse stesse protagoniste. In realtà
L’interruzione doveva essere un documentario, ma ho trovato
difficoltà con le ragazze dell’associazione, non
tutte pronte a liberarsi. Successivamente mi hanno fornito materiale
tramite i loro racconti, e la vita vera è più interessante
della finzione. Per le riprese in interni la sfida era di permettere
di viaggiare solo tramite il racconto, un po’ per merito
delle attrici, un po’ dei dialoghi, un po’ della regia
e del montaggio. Ma il luogo chiuso è anche metafora dell’uomo
moderno, intrappolato e relegato dalla società in una gabbia
culturale.
Progetti Futuri?
Vorrei provare il grande salto con due sceneggiature più
tradizionali per due lungometraggi, uno scritto a quattro mani
con Giuseppe Malandrino, “Dream on”. Per ora cerco
produttori perché sarebbe troppo faticoso continuare in
modo indipendente e desidero anche che il mio lavoro venga apprezzato.
Poi ci sono due corti…
Ilaria Del Prete
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