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L'interruzione, quattro chiacchiere con Domenico Natella
martedì 24 luglio 2007



Alla scoperta di un giovane filmmaker salernitano. Domenico Natella, vanta una carriera complessa e apprezzata, studi presso la New York Film Academy di Los Angeles e La Escuela de Arte Escenica de Granada, numerosi riconoscimenti per i suoi lavori “Hoy no estoy pa’ nadie” e “ Regalos caidos del cielo”, fino all’ultimo dei premi ricevuti al Festival del Cinema Libero di Roma per l’innovazione apportata al linguaggio cinematografico con la sua opera, il cortometraggio “L’interruzione”. Prodotto dall’associazione Renèe Vivien in collaborazione con l’Università degli Studi di Salerno, il corto è un tentativo di rompere-interrompere il pregiudizio su un realtà spesso “tabuizzata”, quella dell’omosessualità femminile, attraverso il racconto di quattro giovani amiche che si riuniscono per creare a loro volta un corto sull’argomento e finiscono con l’essere le protagoniste del corto di Natella.

Con lui ho avuto occasione di chiacchierare sia sull’ultimo lavoro che sulla sua esperienza artistica.

Quante e quali difficoltà incontra un giovane regista che desidera proporre il suo lavoro? La nostra regione, da questo punto di vista, offre qualche possibilità?
Diciamo che la difficoltà che si riscontra con i lavori indipendenti è nel trovare produttori e distributori, anche se tutto diventa più facile se il lavoro piace… Nel nostro paese non c’è neanche l’usanza di proiettare corti nelle sale magari prima del film in cartellone. La regione dal canto suo offre un buon numero di festival, che almeno verso i miei lavori hanno mostrato interesse, e poi qualcosa si sta muovendo nella Film Commission.

Hai avuto esperienze all’estero, New York, Spagna, che differenza c’è nel modo di concepire il cinema e il “fare cinema” rispetto al nostro paese?
È totalmente diverso. In America c’è disciplina, capisci che l’industria cinematografica è un meccanismo a orologeria, ed io mi ritrovo con questo metodo. In Italia prevale un concetto poetico del fare cinema, concetto che convive con la realtà disastrata del nostro cinema. Il lato positivo è che il regista gode di maggior libertà artistica. Altra pecca italiana è che il cinema è molto autoreferenziale, parla di tematiche italiane che destano poco interesse altrove. La situazione è diversa in Spagna, dove i giovani sono aiutati da leggi regionali, c’è un maggior rispetto per l’arte ed una sorta di nazionalismo cinematografico, tant’è che un’apposita legge prevede la proiezione in egual misura di prodotti nazionali ed esteri.

Nei tuoi lavori affronti sempre tematiche forti con tono provocatorio. Quanto credi nella potenza di un messaggio lanciato attraverso il cinema, il teatro e le altre forme di comunicazione da te usate?
Molto. Con il mio primo corto“Hoy no estoy pa’ nadie” (che parla dell’Aids), gli spettatori hanno provato emozione, hanno “sentito” il messaggio. Anche ne “L’interruzione” c’è stata immedesimazione. In fin dei conti ciò che mi spinge a continuare è proprio questo crederci, insieme ad una forte motivazione artistica.


Citi spesso Almodovar come punto di riferimento, quali sono i tuoi “maestri”?
Abel Ferrara, con il quale ho seguito un corso a Bologna, Andy Warhol e Paul Morrison, il quale ha anche apprezzato un mio lavoro, e poi Fellini, Hitchcock, Kubrick…

Dalla soggetto del tuo secondo corto, “Regalos caidos del cielo”, hai ricavato un adattamento teatrale. Come sono stati accolti dal vivo i tuoi temi provocatori? Cosa c’è di diverso tra la tua esperienza teatrale e quella cinematografica?
A Salerno è piaciuto molto, in un’altra città forse questo successo avrebbe avuto un seguito, ma qui non c’è un vero sistema dell’arte. Mi è piaciuta molto l’esperienza del teatro, che è più performativo rispetto al cinema. Anche se simile nella tematica il lavoro ha preso due strade diverse per il corto e per il teatro, qui contano molto anche gli attori e il lavoro del regista su di loro è fondamentale. Un’esperienza che ripeterò. Una sfida artistica.

La critica ti è favorevole sia all’estero che in Italia, ed hai già collezionato numerosi premi, tra cui l’ultimo per l’innovazione apportata nel linguaggio cinematografico con la tua opera “L’interruzione”. Come descriveresti l’innovazione da te apportata?
Per ogni lavoro cerco il linguaggio più adatto, un po’ con la logica e molto con l’istinto. Cerco di motivare ogni inquadratura, sublime arte, che può influenzare lo spettatore a livello inconscio più delle parole. Ho cercato una sorta di cinema “ipnotico” seguendo una lentezza dell’inquadratura e ricercando una sorta di linguaggio cognitivo.

Ne L’interruzione affronti un tema considerato da molti, soprattutto nel nostro paese, come un tabù. Qual è il messaggio della pellicola?
Interrompere il pregiudizio sulla differenza di genere usando toni ironici e non volgari. L’obiettivo è avvicinare il più possibile a queste realtà anche quando non ci toccano direttamente. Raccontando la storia in modo più estremo la realtà sarebbe stata travisata, in realtà io voglio normalizzarla.

Per la realizzazione ti è servita la tua esperienza all’estero, dove questi temi sono affrontati più apertamente?
Viaggiando le barriere non esistono e anche quelle mentali cadono. Magari una cosa vista con occhio critico in Italia è accettata e rispettata in un altro paese, e mi riferisco soprattutto alla Spagna. In Italia anche per via della chiesa siamo un po’ indietro, sembra di tornare quasi alla censura ideologica.

Si tratta anche di un film che parla di cinema. Da dove è nata l’idea di realizzare un racconto meta-cinematografico e perché la decisione di realizzarlo in un unico spazio chiuso?
Io sono un fan dei metalinguaggi e di Abel Ferrara, della follia di fare un film confondendo vita reale e finzione. Nel corto da un senso e un pretesto al loro confronto, elaborando il soggetto si accorgono si essere esse stesse protagoniste. In realtà L’interruzione doveva essere un documentario, ma ho trovato difficoltà con le ragazze dell’associazione, non tutte pronte a liberarsi. Successivamente mi hanno fornito materiale tramite i loro racconti, e la vita vera è più interessante della finzione. Per le riprese in interni la sfida era di permettere di viaggiare solo tramite il racconto, un po’ per merito delle attrici, un po’ dei dialoghi, un po’ della regia e del montaggio. Ma il luogo chiuso è anche metafora dell’uomo moderno, intrappolato e relegato dalla società in una gabbia culturale.

Progetti Futuri?
Vorrei provare il grande salto con due sceneggiature più tradizionali per due lungometraggi, uno scritto a quattro mani con Giuseppe Malandrino, “Dream on”. Per ora cerco produttori perché sarebbe troppo faticoso continuare in modo indipendente e desidero anche che il mio lavoro venga apprezzato. Poi ci sono due corti…


Ilaria Del Prete



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